Fin dall’infanzia i monti hanno esercitato un forte potere evocativo sul mio immaginario, soprattutto a causa di quel “senso dell’inesplorato” che suggerisce la loro visione, oltre che dell’impossibilità di abbracciarne con lo sguardo le indefinite sagome.
Durante i frequenti spostamenti verso il Sannio, terra d’origine della mia famiglia, ho cominciato a familiarizzare con quella ingombrante sagoma verde che, con la sua poderosa mole, costituisce una sorta di quinta tra il beneventano e la piana di Caserta.
All’epoca delle mie memorie, l’itinerario, in assenza di viabilità a scorrimento veloce, prevedeva la percorrenza di sole strade provinciali che, con le loro sinuose anse, lambivano i contorni di quello che seppi poi essere il monte Taburno.
Vigneti e oliveti piantumati con rigorosa geometria, inerpicandosi verso l’alto, ne infoltivano le falde, mentre da una certa quota in poi, sino alla sommità, un denso manto verde ne avvolgeva i ripidi fianchi, interrotto solo da una serie allineata di pali ascendenti che trasportavano la linea elettrica ad un edificio sulla sommità. Di fianco si distingueva la sagoma slanciata di un campanile. “Forse è un convento” – pensavo – avvicinandomi con la fronte al finestrino su cui comparivano i primi timidi segni di condensa. Successivamente, un grande viadotto su piloni scavalcava il salto di discontinuità di una vallata: al di sotto, nella ferace piana telesina scorrevano abbondanti le acque del Volturno.
Ma era il viaggio di ritorno a restituire l’immagine più suggestiva dei luoghi, perché l’intero complesso montuoso denominato Taburno – Camposauro, dal nome delle due vette più alte, restituiva, nel profilo che dà verso la piana di Benevento, la evocatrice immagine di una donna distesa su un fianco, nota come la “Dormiente del Sannio”.
Le pendici del monte che si affacciano verso la piana caudina, teatro della epocale sconfitta dei Romani ad opera dei Sanniti nel 321 a.C., sono invece più spoglie di vegetazione boschiva e incise da profondi canaloni. Qui sgorgano le sorgenti del Fizzo che, conosciute fin dall’epoca romana, sono state utilizzate nei secoli come serbatoio d’acqua per le zone che ne erano sprovviste.
L’ultima grande opera di canalizzazione idrica si deve a Luigi Vanvitelli che, verso la metà del 1700, le convogliò per alimentare le cascate delle reali delizie della Reggia di Caserta e del sito di Carditello, dove venivano utilizzate per l’allevamento del bestiame. L’intera monumentale opera, che si estende su un percorso di circa 38 km, ricomprende la costruzione di un monumentale acquedotto su tre ordini di arcate, noto come i “Ponti della Valle di Maddaloni”, che è annoverato tra le più grandi opere ingegneristiche del XVIII secolo.
Nel tempo, il disboscamento di ampie porzioni del monte Taburno ad opera delle popolazioni locali ha portato all’impoverimento delle sorgenti del Fizzo, per cui, per garantirne la perennità, furono vietati il taglio degli alberi e il pascolo del bestiame su una vasta area del monte Taburno, che venne dichiarata Reale riserva.
La parte sommitale, caratterizzata da un esteso altopiano denominato Valle di Prata, ricompreso tra le vette del Taburno e del Camposauro, è popolata per la maggior parte da foreste di faggio, eccetto alcune zone che, successivamente alla istituzione della Reale riserva, furono oggetto di rimboschimento con abete bianco, abete rosso, pino nero e larice.
Altrettanto varia è la popolazione del sottobosco che, nelle diverse tipologie di foreste, si presenta con densi tappeti dalle variopinte fioriture e offre ospitalità alla fauna selvatica e agli uccelli. Qui, infatti, si fermano sia gli stanziali che i migratori, attratti dalla possibilità di ricavarsi un rifugio e approvvigionarsi di cibo.
Si possono incontrare merli, tordi, quaglie, fagiani, allodole, beccacce, diversi mammiferi, tra cui la martora e la volpe, roditori e rettili, testimoni di un ecosistema che si mantiene ancora in perfetto equilibrio.
È anche attestata la frequentazione umana delle varie grotte formatesi a seguito dei fenomeni carsici. Tra queste spicca la grotta di San Simeone, sulle cui pareti sono presenti ancora tracce di affreschi di epoca medievale raffiguranti santi, ormai non più identificabili, in stile pregiottesco.
Altri, di epoca più recente, raffigurano l’arcangelo Michele ed un santo benedicente, muti spettatori della esperienza contemplativa di coloro che, nei secoli, scelsero di rifugiarsi in questi luoghi incontaminati per stabilire un contatto tangibile con la trascendenza.
Luigi Massimo Cesare
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