L’approccio col Museo Archeologico, avvenuto in una delle mie primissime visite alla città di Napoli, lo ricordo ancora come un crogiolo di forti emozioni contrastanti.
A colpire il mio immaginario di adolescente fu soprattutto la dimensione spazio-temporale del capoluogo campano, che potei percepire sia negli ordini di grandezza superiori con cui si articolavano gli edifici che nel ritmo veloce con cui scorreva, sotto i miei occhi meravigliati, la frenetica vita dei suoi abitanti. Tra i colori che mi colpirono, due: un rosso corposo e denso come il sangue di bue e il grigio scuro delle strade lastricate di basoli, con la tipica patina del tempo che solo una frequentazione umana ininterrotta può donare.
L’edificio del Museo li riunisce entrambi questi colori, ma si distingue dagli altri per la maestosità della propria mole che si staglia al di sopra del piano stradale, su un terrapieno raggiungibile attraverso una elegante scalinata in piperno dai contorni arrotondati.
Durante l’ascesa al portale di ingresso, incastonato tra due eleganti colonne in travertino, si avverte in maniera decisa la esigenza di sicurezza richiesta dallo stabile, progettato come uno scrigno per preziosi, con salde inferriate a protezione delle ampie aperture del piano terra, sovrastate da eleganti timpani triangolari in trachite.
L’androne di ingresso, tripartito da due arcate laterali, ha come punto di fuga prospettico la statua del Canova raffigurante Ferdinando I delle due Sicilie, protettore delle arti, allocata sul ballatoio dello scalone a doppia rampa che conduce ai piani superiori.
Varie iscrizioni ricordano le varie funzioni cui fu adibito lo stabile nei secoli, come anche l’impegno profuso dai regnanti nel proteggere i pezzi d’arte più importanti durante gli eventi socio-politici avversi.
Ai Borbone, infatti, che seppero riunire in questo complesso, tra le altre cose, i nuclei della collezione Farnese con i ricchi ritrovamenti provenienti dai siti dell’area vesuviana, si deve anche la scritta “iacent nisi pateant” affrescata sul soffitto del salone della meridiana, che testimonia l’intento, molto progressista per l’epoca, di esporre e rendere fruibili al pubblico gli oggetti d’arte.
Sulla stessa falsariga e in accordo con la storica “mission”, l’attuale Ente, divenuto nelle more autonomo, ha concentrato le proprie energie proprio nel restituire alla fruibilità pubblica, a corredo dell’offerta, anche aree esterne, negli anni neglette, come i cortili-giardino.
Percorrendo l’androne di ingresso si aprono infatti, ai suoi lati, i primi due cortili-giardino, rispettivamente detti delle camelie e delle fontane per via degli elementi ivi predominanti, recentemente riportati all’antico splendore grazie ad un intervento di tipo conservativo del verde originario e di sfoltimento dei numerosi materiali lapidei che erano andati qui accumulandosi nel tempo.
Ma è stato il terzo cortile, detto della Vanella, situato alle spalle dell’edificio e parallelo ad esso, con la sua forma rettangolare allungata, a rappresentare la vera e propria sfida tematica in vista del suo successivo utilizzo. Si era infatti pensato di non lasciarlo più confinato nel ristretto ambito delimitato dal museo e da una delle sue pertinenze, detto Braccio Nuovo, ma di farlo divenire uno spazio integrante dell’ambiente urbano di Napoli, aperto liberamente alla cittadinanza in un prodromico ruolo di interconnessione con l’istituto museale.
Da questa esigenza e dalla sensibilità storica dell’architetto e paesaggista Silvia Neri è sorto il progetto di rifunzionalizzazione dell’area, che ha visto, trasposta negli spazi verdi progettati, la struttura urbana ippodamea dell’antica Neapolis.
Partendo infatti dalla necessità di mantenere la strada in basalto che corre parallela all’edificio in direzione est – ovest e che conduce ai laboratori di restauro, l’architetto ha immaginato di vedere in questo punto di cesura una delle tre plateiai che costituivano i principali assi viari della Napoli greca (che diventeranno i Decumani nel periodo romano). Altri viottoli, di larghezza inferiore, ma perpendicolari alla citata strada (come gli stenopoidell’impianto ippodameo) e lastricati in pietra grigia, delimitano in tal modo gli spazi verdi e conducono i visitatori dal museo ai vari ambienti del Braccio nuovo, opportunamente restaurato per ospitare un auditorium e un ristorante stellato. Oltre alle preesistenti palme opportunamente mantenute, sono state inserite altre essenze arboree come un melo da fiore, piante di arancia amara, un gelsomino notturno, rose iceberg oltre a varie piante dalla fioritura stagionale e una ombrosa pergola.
Degna di nota è poi la conservazione della peschiera voluta dal Maiuri nel precedente allestimento, come pure del cosiddetto Ipogeo di Caivano, notevole esempio di tomba gentilizia romana affrescata con scene idillico-sacrali e restituito oggi dopo un accurato restauro.
Il Giardino della Vanella, nel suo riallestimento attuale costituisce quindi un luogo di riposo, di studio e finache di svago ma soprattutto ha il merito di aver riportato nel museo la città di Napoli, metaforicamente con l’impianto urbano adattato al giardino e, concretamente, restituendolo alla fruizione dei suoi abitanti.
Massimo Luigi Cesare
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