Il verde non è solo il paesaggio in cui nasciamo e cresciamo ma è anche il luogo della memoria, della storia e della cultura di un territorio e di una comunità.
Amiamo raccogliere le storie legate ai nostri parchi e giardini, soprattutto storici, perché ci aiutano a definire la nostra identità allo scopo di tutelarla e valorizzarla perché sia forza per il futuro.
Così, in occasione della Giornata del ricordo (10 febbraio), una solennità civile nazionale italiana, istituita con la legge n.92 del 30 marzo 2004, in occasione dell’anniversario del Trattato di Parigi (10 febbraio 1947) quando, dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia dovette cedere alla Jugoslavia Fiume, gran parte dell’Istria e della Venezia Giulia, Zara e la sua provincia, inaugurando la triste stagione dei profughi istriani e delle foibe, abbiamo ascoltato con commozione la memoria di Rosita Marchese, attuale presidente dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, profuga istriana che a partire dal 1947, e fino al 1954, con la sua famiglia crebbe in uno dei tanti campi dedicati all’accoglienza dei profughi giuliano – dalmati, quello allestito nel Bosco di Capodimonte.
Di seguito riportiamo la sua toccante testimonianza, nella quale spicca il rispetto per il verde del parco di Capodimonte e l’affezione per una grande magnolia, protagonista della festa di San Giusto, patrono di Trieste, celebrata da tutta la comunità istriana che per l’occasione si riuniva nel giardino borbonico.
La giornata del ricordo per me, profuga giuliana, giunta a Napoli dopo difficili tappe di avvicinamento, è come una sorta di lavacro purificatore.
Ero bambina, molto piccola, ma quasi per una miracolosa rivalsa sulle ingiustizie subite dalla mia famiglia e sulla precarietà di una esistenza senza radici, in un angolo del mio cervello c’è un ripostiglio nel quale i ricordi hanno trovato rifugio.
Il 10 febbraio di ogni anno si risvegliano puntuali, rivivono con me quasi a voler ammonire quella bambina, che intanto è diventata nonna e continua a vivere e scegliere Napoli: non dimenticare Rosita. Non ho dimenticato.
La mia testimonianza.
Parto per questo viaggio della memoria dal luogo dove la mia famiglia fu costretta a fuggire. Umago la città dove sono nata, anzi nella piccola frazione di Cipiani e battezzata nella chiesa di Matterada. Umago, provincia di Pola fino al 1947, una splendida città di mare abitata, allora, in prevalenza da pescatori e contadini che coltivavano la fertile terra rossa istriana.
Oggi Umago vive prevalentemente di turismo ed è un mondo molto diverso rispetto ai miei ricordi. Ricordi vaghi ma limpidi.
L’esodo ha comportato la frammentazione della famiglia di mia madre: i nonni sono rimasti in Istria nella loro casa, due fratelli si sono fermati a Trieste, una sorella è emigrata in Canada ed un altro fratello, l’unico ad aver scelto la Jugoslavia, ha interrotto tutti i rapporti con la famiglia.
Trieste è stato il primo centro di smistamento dei profughi, tanti, che vennero distribuiti in ben 109 “campi” aperti in tutta Italia.
Noi scegliemmo Napoli, città di origine di mio padre. Fummo accolti bene fin dall’inizio e cominciammo ad apprezzare la solidarietà: il parroco della Speranzella ci trovò una stanza in famiglia a Vico Canale, presso una famiglia.
Poi , seconda destinazione fu il Bosco di Capodimonte, terzo campo profughi, ingresso lato Miano. Nel bosco ci sistemammo in una minuscola baracca, un unico ambiente diviso da una parete di carton gesso realizzata da mio padre, Adriano, che costruì un armadio con assi di legno e cartone. Quello che oggi definiremmo angolo cottura, era semplicemente uno “spaker ” a legna che ovviamente non mancava in un bosco lussureggiante.
Noi tre figlie in collegio. A me capitò l’orfanatrofio dell’Arco Morelli tenuto dalle suore di San Vincenzo. Lì ho trascorso i primi quattro anni delle elementari, privilegiata da due situazioni favorevoli. Mia madre veniva a cucire i grembiuli e gli abiti per il collegio e quindi potevo vederla e poi la mia buona dizione italiana mi portò ad essere scelta per le recite di beneficenza.
Nei giorni di festa e nelle pause estive il Bosco di Capodimonte, la parte bella di questa mia nuova vita. Come si svolgeva? Noi bimbi raccoglievamo sacchi di ghiande per venderle ai contadini di San Rocco, guadagnando così qualche soldo, si raccoglievano funghi ed erbe che, insieme a grosse scatole di formaggio giallo e latte in polvere, costituivano un aiuto alimentare. Ma soprattutto il Bosco era giochi e vita all’aria aperta in quel meraviglioso trionfo della natura. Natura da noi sempre rispettata, non abbiamo mai commesso alcun abuso.
La vita del campo era molto comunitaria: gli adulti adibirono a balera una baracca per le loro serate di canti e balli. Noi bambini avevamo una baracca per i nostri giochi (queste baracche erano nell’area dell’attuale Istituto Caselli ndr).
Le feste…..ricordo, in particolare, quella di San Giusto. Si svolgeva nel secondo campo, dove c’era soltanto l’infermeria. I giovani si sfidavano nella corsa dei sacchi, tiro alla fune e nella scalata ad una stupenda magnolia con il tronco insaponato (la magnolia si trova tutt’ora nell’area della Fagianeria ed è parte di un gruppo di 7 esemplari, ndr).
Questi i miei ricordi sereni.
Per i miei genitori, invece, sono stati anni durissimi sui quali ha pesato un dolore mai, mai, sopito.
Avevano una nostalgia struggente ma non sono mai più ritornati in Istria, mia madre fermava il suo sguardo sulle punte di Pirano e Salvore sempre da Trieste.
Hanno mantenuto un dignitoso silenzio impegnati a costruire per noi un futuro senza odi e rancori.
Il giorno del ricordo per me è far riaffiorare questo vissuto, ma anche la forte volontà di testimoniare il dolore di un popolo, un esodo lungo, con atrocità, delazioni, perdita di tutto. Questo significa essere profugo. Un profugo è senza radici per tutta la vita e rimane sempre un ospite nel luogo dove è approdato. Un ospite, come nel mio caso, gradito ma comunque sempre tale.
Dopo decenni di complici silenzi alle nuove generazioni voglio portare la mia testimonianza per farli diffidare, dalle facili strumentalizzazioni di oggi, dalle semplificazioni, da una lettura distorta degli avvenimenti, raccontando loro che la violenza genera violenza e che da “soli” devono cercare la verità.
Ai giovani voglio trasmettere i valori della solidarietà, della tolleranza, dell’accettazione delle diversità che hanno scandito la mia vita di profuga.
Dire loro di avere più fiducia in se stessi perché, anche partendo da zero, è possibile scalare la magnolia insaponata ed arrivare in cima.
Rosita Marchese
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