La sensazione che si prova durante il viaggio in mare alla volta di Capri è un’emozione che, a cercare di definirla, lascia sempre un senso di insoddisfazione: qualsiasi descrizione non riesce a renderne l’essenza.
Da Napoli appare come una sorta di sentinella silente del Golfo, grigio azzurrina, protesa nel mare con la sua forma allungata, interrotta solo dal salto di discontinuità del monte Solaro. Man mano che ci si avvicina, questa sagoma sembra svanire lentamente e l’occhio percepisce un tripudio di colori: il bianco della roccia, il verde intenso degli arbusti della macchia mediterranea, il blu opalescente del mare, il caldo abbraccio di bambagia dell’atmosfera che la circonda.
E l’isola sembra nascere in quel momento, emergere dalle profondità marine con i suoi scoscesi costoni rocciosi, i suoi anfratti impenetrabili, la sua possenza, il suo peculiare senso del perturbante.
A creare questo fascino sinistro contribuiscono – almeno nel mio immaginario – gli scritti degli autori classici, in cui l’isola è teatro delle nefandezze dell’imperatore Tiberio, che l’aveva eletta a residenza imperiale negli ultimi anni della sua vita.
Chissà se i colti e creativi visitatori del Grand Tour hanno provato le stesse mie contrastanti suggestioni quando, per la prima volta, hanno visto delinearsi di fronte a sé la sagoma incerta dell’isola?!
Non è un caso che alcuni dei più eclettici e proficui intellettuali del passato – scrittori, poeti, pittori, musicisti – abbiano scelto Capri quale propria dimora stabile, dopo essere rimasti ammaliati dalla struggente e selvaggia bellezza dell’isola nonché dal fascino delle perduranti tradizioni pagane, ancora così vive nel volksgeist. Ognuno di essi ha lasciato un’impronta indelebile della propria permanenza sull’isola contribuendo a renderla, sino agli anni 30 del secolo scorso, una fucina di arte e di cultura.
Tra questi, un ruolo di primo piano spetta al medico e scrittore Axel Munthe, nativo svedese poi divenuto cittadino caprese, che visitò per la prima volta Anacapri in giovane età, rimanendone rapito.
Resta incredulo e divertito il giovane Axel nell’udire un vecchio contadino autoctono – intento a dissodare il proprio podere da destinare a vigneto – imprecare contro un frammento di colonna romana affiorante dal terreno: “E’ tutta roba di Timberio, maledetto!”
Da quel terreno, posto sul fianco del monte Solaro, in posizione panoramica, affiorano anche i resti di una cappella dedicata a San Michele Arcangelo. Axel se ne innamora perdutamente. Durante il lungo viaggio di ritorno in Svezia, sente una voce misteriosa e insistente che riecheggia assordante: “san Michele, san Michele!!”.
Decide quindi di acquistare quell’angolo di paradiso, abbagliato dalla sua immensa luce e di edificarvi il suo personalissimo tempio al Sole come in passato avevano fatto le progredite civiltà orientali e in epoca cristiana lo stesso san Francesco. Ai lavori di costruzione partecipa lui stesso, medico di fama internazionale, lavorando duramente, affiancato dalle maestranze locali, ma volutamente senza seguire di alcun progetto scritto e definito, convinto che sarà l’occhio a fare il risultato.
Dopo vari ripensamenti e ripetute demolizioni, il risultato è estasiante: tutti i materiali di epoca romana emersi durante lo scavo vengono incastonati nella erigenda struttura, come nocciole nel torrone: migliaia di lastre lucide di marmo colorato, busti, colonne e centinaia di iscrizioni greche e romane ritrovano la propria collocazione.
Ne risulta un edificio composto di pochi ambienti interni, che si sviluppa armoniosamente nel paesaggio esterno, estendendosi in un susseguirsi di patii, logge e pergolati, perché il conforto dell’anima richiede, a differenza del corpo, ampi spazi.
La semi-diruta cappella dedicata a San Michele Arcangelo viene restaurata ed adibita a biblioteca e il cammino di collegamento alla villa riempito di una folta schiera di cipressi.
Giovani viti, rose, caprifoglio ed epitimo si aggrovigliano intorno alla lunga fila di colonne bianche e una ricca antologia di sculture antiche e riproduzioni popolano il centro della grande loggia.
Ma a riempire la casa di gioia è il folto numero di amici a quattrozampe di Axel: Billy il babbuino, i tanti cani, la mangusta e (persino) una civetta saranno gli affettuosi e rumorosi compagni di vita dello scrittore.
I loro indimenticabili siparietti come la scena del babbuino che ogni mattina spulcia la folta pelliccia dei cani, tutti allineati nel cortile in attesa del proprio turno o le zuffe sedate dal sopraggiungere della temuta mangusta, sembrano ancora oggi riecheggiare tra i candidi muri della villa.
Di tutto ciò è rimasta memoria grazie all’opera che Axel Munthe scrisse ormai vecchio, intitolata “La storia di San Michele” (edita da Treves nel 1932) quando, colpito da fotofobia, si rifugiò nell’antica torre di Materita per sfuggire, ironia del destino, a quella immensa luce di villa San Michele che lo aveva innamorato da giovane.
Il romanzo costituisce il testamento spirituale di Axel Munthe, memoria della sua impareggiabile generosità nei confronti di qualsiasi forma di vita, animale o umana, e della sua opera di medico benefattore, prestata a favore di chiunque ne avesse bisogno, povero o ricco che fosse.
Immenso rammarico per la terra caprese è non potergli restituire l’eterno e confortante suo abbraccio.
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