Ci sono dei luoghi della nostra esistenza che, sebbene frequentiamo con assiduità e da tempo immemorabile, sono dotati di un tale potenziale emotivo da non smettere mai di trasmetterci flussi di benessere e di positività ad ogni nuova visita.
È quanto mi accade ogni volta che rimetto piede nel sito archeologico di Paestum, le cui imponenti vestigia continuano ad affascinarmi e a rappresentare la pietra miliare della mia passione per le autoctone civiltà primigenie, che ancora oggi, a distanza di secoli, costituiscono lo scheletro del patrimonio immateriale posto alla base della nostra società.
Fu entrando nel Museo Archeologico di Paestum che, da adolescente, rimasi colpito dal campeggiare, alla sommità della prima rampa di scale, di una struttura architettonica in pietra locale, sovrastata da un ciclo di decorazione a bassorilievo per la cui comoda fruizione visiva l’edificio museale vero e proprio evidentemente era stato progettato.
“E’ la ricostruzione dell’Heraion alla foce del Sele” disse la guida a noi giovani liceali, chiarendo che il ciclo di metope databili alla metà del VI sec a.C. raffigurava episodi tratti dai miti di Eracle, oltre che dai poemi omerici, senza dettagliare ulteriormente circa l’ubicazione del tempio dedicato appunto alla dea Hera (cd. Heraion).
La curiosità di saperne di più mi portò poi a scoprire che tale insediamento cultuale, sito presso la foce del fiume Sele, costituiva uno degli avamposti dei Greci colonizzatori, qui stabilitisi, insieme con gli altri due templi, uno localizzato in Agropoli e inglobato nella mole del castello aragonese e l’altro, arroccato sul promontorio del monte Calpazio, attualmente sede del santuario cosiddetto della “Madonna del Granato”.
Dell’Heraion alla foce del Sele si era persa nei secoli la localizzazione, sebbene ne venisse rievocata memoria negli scritti di Plinio e soprattutto di Strabone.
Fu grazie all’accurata descrizione dei luoghi tracciati dal geografo di epoca augustea che, negli anni ‘30 del secolo scorso, Paola Zancani Montuoro e Umberto Zanotti Bianco riuscirono ad identificare il sito durante una esplorazione cognitiva della sinistra idrografica del fiume Sele.
Qui, in quella parte della piana del Sele che attualmente ricade nella località Gromola del comune di Capaccio, distante circa 1,5 km dalla linea di costa odierna, i due ricercatori identificarono il fino ad allora ignoto sito, notando la presenza di massi in pietra lavorata affioranti dalla folta vegetazione infestante.
Il territorio pestano, infatti, ha subìto nel corso dei secoli stravolgimenti ambientali tali da alternare periodi di estrema fertilità, testimoniati dalle fonti storiche in epoca romana, a periodi di impaludamento, che caratterizzavano quei luoghi all’arrivo dei due studiosi, quando la piana era popolata solo di mandrie di bufali e sparuti caseggiati rurali.
Il successivo scavo non fu privo di ostacoli, sia a causa dell’ambiente acquitrinoso e malsano in cui si svolsero le operazioni, che del disinteresse da parte dell’allora governo fascista a dare supporto e mezzi per far riemergere una nuova ed importante testimonianza dell’ascendenza ellenica del popolo italiano.
Di fronte alla noncuranza delle autorità governative, le ricerche continuarono solo grazie alla benemerenza di appassionati e filantropi, portando al recupero – oltre che del già citato ciclo decorativo metopale – anche di centinaia di ex voto della dea Hera, raffigurata nella tradizionale posa in cui sostiene un neonato con la mano destra e stringe nell’altra un frutto di melograno.
Quando gli studiosi scoprirono che l’iconografia della “Madonna del Granato”, venerata nel santuario omonimo, era la medesima dell’antica divinità, non tardarono a comprendere che il culto di Hera Argiva era stato trasposto senza soluzione di continuità dal mondo pagano a quello cristiano.
Come pure di origine pagana erano le “cente” ovvero le piccole imbarcazioni di legno, ricolme di fiori, che i fedeli dei nostri giorni ancora portano in processione in occasione della festività religiosa del 15 agosto.
Di tali sorprendenti scoperte è rimasta traccia nella pubblicazione denominata “Heraion alla foce del Sele”, edita negli anni ’50 dalla Libreria dello Stato e frutto della collaborazione dei due studiosi Paola Zancani Montuoro e Umberto Zanotti Bianco, opera che ancora oggi viene apprezzata per lo scrupolo filologico, la profonda conoscenza delle fonti storiche, l’innovativa metodica di scavo posta in essere e l’accurata descrizione e interpretazione dei materiali portati alla luce.
L’opera, quasi enciclopedica, impegnò per molti anni Paola Zancani Montuoro, che vi ci si dedicò anima e corpo, anche per allontanare la mente dal dolore per la prematura scomparsa del marito, nei lunghi soggiorni presso la dimora di famiglia che diventò il suo buen retiro.
Donna Paola – come usavano chiamarla gli abitanti del luogo – condusse i suoi studi presso la magnifica tenuta denominata “Il Pizzo” – sita tra i comuni di Sant’Agnello e Piano di Sorrento ed estesa su una superficie di ben 16 ettari – che deve la propria denominazione alla posizione a strapiombo sul Golfo del Pecoriello.
La tenuta, voluta da Mariano Arlotta, rampollo di una facoltosa famiglia della borghesia mercantile da cui l’archeologa discendeva per parte materna, è costituita da un complesso di ville storiche incastonate in un incantevole paesaggio, frutto dell’alternanza di oliveti ed agrumeti che si conservano, ancora oggi, nella loro disposizione originaria.
Man mano che si avanza verso il mare, gli agrumeti lasciano il posto ad una folta macchia mediterranea, composta da lecci, querce, pini secolari, carrubi con oleandri, agavi e siepi di mortella che, nel loro inestricabile amalgama, costituiscono una solida barriera ai gelidi venti invernali provenienti dal nord.
Qui visse gli ultimi suoi anni e si spense Donna Paola: la sua vita, trascorsa all’insegna del connubio di ricerca filologica e ascetismo bucolico, riecheggia ancora nella memoria storica dei luoghi che ha riscoperto e ci ha restituito, luoghi che oggi costituiscono il patrimonio di quella parte dell’umanità che li ama e che, visitandoli, riesce ancora ad emozionarsi.
Bello conoscere la storia di un luogo dove viaggiando sempre in auto leggendo su quel cancello “IL PIZZO” chiedendosi solo cosa fosse e cosa significasse senza averlo mai visto
Grazie del commento. Speriamo poter essere utili ad aumentare la conoscenza di questi luoghi unici